Attraverso montagne e foreste nella regione di Chiang Mai con tre motociclette e tre amache
Alla faccia del clima tropicale! Questa notte si è alzato un vento che faceva ondeggiare l'amaca come una barchetta e che mi ha costretto a sfoderare il kit d'abbigliamento al completo (felpa + asciugamano da spiaggia tirato sopra). Comunque un'ora dopo siamo di nuovo in maglietta sulle nostre moto.
L'asfalto ci fa procedere veloci tra saliscendi, valli tappezzate di campi coltivati, villaggi e tratti di foresta.
Metà aprile, siamo al termine della stagione secca che precede l'arrivo del monsone e grazie a libri, siti web e amici siamo già al corrente della pratica e delle conseguenze dello slash & burn, la secolare tradizione di bruciare la foresta.
Intorno a noi, già da ieri, è un susseguirsi di piccoli focolai che annientano il sottobosco, occasionalmente provocano la caduta di qualche albero, ma soprattutto mantengono l'intera regione (l'intera Tailandia settentrionale, ma anche nelle vicine Laos e Myanmar è diffusa, così come in Africa e Sudamerica) avvolta in una perenna nebbia fumosa. Dove lo sguardo potrebbe spaziare il verde della foresta degrada rapidamente in una grigia foschi, in lontananza si distinguono le colonne scure di fumo e si ascolta lo scoppiettio della vegetazione che arde. Spesso l' incendio lambisce docilmente il ciglio della strada che agisce come un cortafuego.
Questa atavica e antichissima sfida dell'uomo che cerca di appropriarsi come può dello spazio che la foresta non gli concede è una pratica ancora viva nell'Asia del terzo millennio. Da una parte l' amministrazione pubblica cerca di scoraggiare lo slash & burn attraverso propaganda e cartelli di monito, dall'altra organizzazioni internazionali e progetti di ricerca cercano soluzioni sostenibili da proporre come alternativa, ma non sarà facile trovare un' uscita. A chi vuole saperne di più passo questo link.
A mezzogiorno, dopo aver fatto rifornimento presso una rudimentale quanto efficace pompa di benzina, ci ritroviamo a tentennare cartine alla mano tra stradine che costeggiano le coltivazioni e cartelli che indicano località inesistenti sulle nostre mappe. Ma è proprio dai campi che giunge l'aiuto provvidenziale di un anziano che sembra capire dove vogliamo andare (inutile indicare punti sulla mappa, non la degnano di uno sguardo, il loro riferimento è sempre l'ambiente che li circonda e che ai loro occhi non può essere trasferito su un pezzo di carta) e ci indica -di là- sorridendo.
L'asfalto torna a essere sterrato, la terra compatta si alterna a spianate di polvere e sabbia rossa. Per far sbollire i motori ci fermiamo nella locanda di un villaggio che nella canicola di mezzogiorno ha l'aspetto di un crocevia del Far West.
Di nuovo in sella, e per tutto il pomeriggio sarà un susseguirsi di dirt roads. È quindi doveroso a questo punto presentare un breve sommario delle tipologie di terreno che ci sono passate sotto le ruote.
Breviario degli sterrati.
L'universale canonico. Trattasi del più classico e comune degli sterrati. Lo puoi trovare nell'entroterra romagnolo come in una forestale dolomitica, nei pressi di un casolare nel Salento come nel vigneto della Maremma, nelle Pampas argentine, a Honolulu e probabilmente anche su un pianeta di Alfa Centauri. Insomma, parliamo della tipica carrozzabile di brecciato; se non sai tenere in piedi la moto quà sopra prendila come un segnale: torna sull'asfalto o prosegui a piedi!
L'ondulato. Il manto apparentemente liscio rivela possedere un profilo a piccole cunette. Un po' come quando sulla pista da sci è passato il gatto delle nevi. Non nasconde particolari insidie ma quando le vibrazioni entrano in risonanza aggrappate al manubrio le dita ti cominciano a saltellare come dei bastoncini findus nella friggitrice. Normalmente preso alla sprovvista tiri un po' il freno e aspetti che il supplizio finisca.
Il borchiato. Allo sterrato canonico aggiungiamo dei sassoni incastonati nel sottosuolo che come degli iceberg lasciano emergere delle porzioni di pietra di forma tetraedrica più o meno levigata.
Il pneumatico generalmente non gradisce che la minerale protuberanza intralci il suo libero rotolare e di solito risponde con uno stizzito scarto laterale.
Il solcato. Un tratto fangoso dello sterrato è stato segnato dal passaggio di ciclomotori. Il fango durante la stagione secca si solidifica trasformando la carreggiata in un intricarsi di binari nei quali è facile entrare ed è difficile uscire. La moto comincia a saltellare come una cavalletta epilettica e devi sperare che l'incubo si esaurisca in una decina di metri per scongiurare il definitivo disarcionamento.
Il sabbiato. A colpo d'occhio può sembrare un solcato e ti metti in guardia decelerando ma invece di toccare terra dura la ruota anteriore va alla deriva in una buca sabbiosa; quando anche la ruota posteriore entra nella trappola seguono il rombo del motore che sale di giri e una corona di polvere che si solleva dietro di te. I sabbiati più insidiosi con la ruota che sprofonda fino al mozzo ci hanno visti costretti ad estrarre il veicolo dal bunker spingendo a quattro mani e sgasando come bulli del quartiere.
La doppia striscia di cemento. I tratti di pendenza eccezionale su terreno instabile sono stati saltuariamente dotati di due corsie di cemento parallele per le due coppie di ruote di un auto. Con il tempo l'acqua ha scavato un baratro nel mezzo che ti impedisce di portare la moto da una all'altra. Aggiungiamo l'ampiezza ridotta della striscia e la forte pendenza e otteneniamo una prova di equilibrismo e nervi saldi.
Nel tardo pomeriggio, quando l'attenzione perde il mordente, un solcato meticcio con venatura di sabbiato mi fa saltare fuori dalla moto che crolla di lato come un cavallo abbattutto. Mi spolvero i pantaloni con due manate e un' imprecazione e mi rimetto in sella.
Arriviamo in un villaggio più grande degli altri provati, affamati e indecisi sul da farsi. Cenare? Accamparsi? Dalla veranda una donna ci ascolta e si propone di cucinarci qualcosa. E così Hauke va al mercato con lei a fare provviste, mentre io e Andreas facciamo la conoscenza di tutta la famiglia allargata. Figli, zii, nipoti, il nonno, due cani, la gatta e un maiale che razzola sotto la veranda. La comunicazione è elementare e frammentaria
-Where you come from?
-Italy
-Milan!
-I live in Barcelona
-Leo Messi!
Parliamo del thai-box e dei nostri rispettivi lavori, della chiesa cristiana che sta dietro la collina (oggi è domenica e si sente lo scampanare) e del fatto che nessuno di noi tre è sposato.
Dopo il pad thai familiare ringraziamo e ci rimettiamo in marcia in cerca di un sito propizio per il nostro campo, ma lo slash & burn imperversa ovunque e non vogliamo appendere le amache sopra le braci, ne tantomeno sopra un terreno che cominci a bruciacchiare durante la notte.
A corto di opzioni chediamo il permesso di accamparci nel giardino di un resort. -Dove volete- ci dice il gestore, e ci mette a disposizione pure una doccia. Che lusso.
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